Seduto comodamente in poltrona, sto per riprendere la lettura di un bellissimo libro, “il Palazzo degli specchi” di Amitav Ghosh.
Sul divano di fianco si è coricato mio figlio - undici anni - concentratissimo sul Nintendo DS, su chissà quale gioco.
Abbiamo appena terminato una partita a scala quaranta e, come quasi sempre, ho perso.
La stanza in cui ci troviamo è immersa in un notevole caos: libri, fogli, quaderni di compiti, scarpe, due lattine di coca-cola appoggiate in terra.
E’ vero, c’è disordine, ma la cosa non mi da’ particolarmente fastidio, non mi urta, anzi mi piace molto.
Il disordine, quello provocato dai bambini, è positivo, vitale, segno di un’esuberanza che si affievolisce e sparisce col passar degli anni, con il maturare.
Il mio ragazzo cresce, sta diventando adolescente e tutti questi momenti d’intimità, di gioco, di manifestazioni d’affetto esplicite e inaspettate - che solo certa età sa donare - diminuiranno, spariranno.
Spiazzato da queste riflessioni, appoggio il libro sulle ginocchia, guardo mio figlio, sempre assorto nei suoi mondi e mi concentro su tutti i pensieri e le emozioni che si affacciano alla mia mente: la gioia perché sta crescendo bene, la speranza che il suo futuro sia il migliore possibile e il dispiacere perché, comunque, la crescita equivale a una separazione, un distacco. Ed io non mi sento pronto.
Mi piacerebbe, ogni tanto, poter fermare il tempo per prolungare qualche momento meraviglioso e irripetibile che mio figlio mi regala.
Poi un'intuizione, che con prepotenza offusca tutto il resto: mi accorgo che, dopo aver passato buona parte della vita inseguendo la maturità, la razionalità, adesso cerco in tutti i modi di recuperare la spontaneità e l’innocenza della mia infanzia, quella capacità di vedere il mondo da un’altra prospettiva, di vivere ogni sentimento o emozione come se, in quel momento, non ci sia altro, salvo poi, in un attimo, cambiare.