Coraggio, è l'ultima puntata.
Dove ero arrivato con il racconto? Ah sì, ero sotto al portico, all'altezza della farmacia ...
Cammino per tutto il porticato e arrivo al bar. Meno male che c'è ancora; per un attimo ho temuto che fosse diventato un'agenzia immobiliare.
Il bar non pare cambiato: stessa insegna al neon rossa e gialla - bruttissima - e identico nome. Guardo attraverso le vetrate e mi sembra che anche l’arredo sia uguale a come lo ricordo.
Per controllare più da vicino decido di entrare, ma il timore di sentirmi un estraneo completo, mi rende titubante.
Quando titubo, mi si vede lontano un miglio, per via della camminata ondeggiante a pendolo. Come se non bastasse l'ondeggiamento, ho il vizio di sprofondare le mani nelle tasche e di guardare in continuazione a destra e a sinistra. Riconoscibilissimo, insomma.
La porta non è ancora chiusa dietro di me che già cinque clienti mi squadrano. Arrossisco - solo di dentro - e preparo una exit-strategy: al terzo sguardo interrogativo ordinare un caffè, per sviare qualunque sospetto.
Intanto che tocco le tasche del mio giubbotto, fingendo di cercare il cellulare, mi guardo intorno. Incredibile. I tavolini sono gli stessi e alle pareti sono appese le stampe di tanti anni fa. Ci sono ancora i due ficus altissimi e fintissimi, di lato alla porta. Belli lucidi, ma brutti forte.
Nella saletta sulla sinistra c'è il biliardo con tutti i suoi accessori: la rastrelliera delle stecche, il segnapunti con le file dei cubi numerati - rossi e bianchi -, la scatola con i gessetti blu e la spazzolina. Appese, sopra il tavolo, tre lampade con il paralume verde.
L'aria, nella sala, ha un odore nuovo, in tono con i tempi: più arbre magique e meno nazionali senza filtro.
Con la mano sfioro la parete e premo l'interruttore delle tre luci. Insieme alle lampade verdi si accendono anche mille ricordi: le partite a stecca, le sfide ai centouno, il rumore dei birilli travolti dalla palla, le sfortunate sconfitte e le meritate vittorie. E rivedo il classico siparietto in cui il protagonista, accartocciato sulla stecca, sta calcolando che effetto dare alla boccia e quante sponde colpire; alle spalle l'antagonista bell'e pronto a spingerlo nel momento topico del tiro e gli altri due compari già sghignazzanti per la prevedibile bevuta.
Di colpo, qualcosa mi riporta al presente. Eccola lì; ho trovato una differenza rispetto al passato: il barista.
Senofonte (nome di fantasia - N.d.A), detto il Palombaro per via dei suoi torbidi trascorsi in Marina, non c’è più. Adesso è un altro che prepara caffè e serve quartini di bianco: un cinese.
E’ bastato questo particolare per rendermi estraneo il posto. Non ho preso neppure il caffè e sono uscito, anche se la tentazione di ascoltare il nuovo barman ripetere "Bicchiere di Rum Riserva Oro trent'anni" l'ho avuta.
Per carità, non ho proprio niente contro i cinesi e il loro maledetto vizio di intrufolarsi dappertutto.
Però, senza il Palombaro dietro il bancone, non è più la stessa cosa.